7 GIORNI IN UNA SECONDA VITA


Sono all'interno di un'elegante struttura di metallo in stile liberty. Gradualmente il paesaggio si riempie di particolari: colline, alberi, edifici lontani. Al centro dello schermo, di spalle, c'è il mio alter ego. Ho abbastanza dimestichezza con i videogiochi in terza persona e percorro senza difficoltà un corridoio. Fuori dall'edificio, nei pressi di una fontana finemente animata c'è un crocchio di personaggi bizzarri. Alcuni hanno sembianze umane, altri sembrano usciti da un cartone manga, altri ancora hanno una testa di animale e si esibiscono in inspiegabili balletti sospesi a mezz'aria. In un angolo dello schermo iniziano ad accavallarsi i loro dialoghi sotto forma di testo. Parlano di persone che non conosco e usano termini ed abbreviazioni misteriose. Mi avvicino ad uno di loro ma non so cosa dire. Digito qualche frase incerta e lui capisce che sono un newbie, un nuovo arrivato. Una ragazza in divisa da hostess si aggira of-frendo tour introduttivi al prezzo di pochi lindendollari che intuisco siano la valuta locale.
Inizia così la mia seconda vita: "overwelming" è la parola che ho spesso sentito usare per de-scrivere il primo impatto di Second Life. E' vero, sono sopraffatto. Una donna dai gioielli ec-cessivamente brillanti mi dice di non disperare, mi ci vorranno delle settimane per abituarmi. Second Life è ciò che tecnicamente viene definito MMORPG l'impronunciabile acronimo di Massive Multiplayer Role Playing Game. Immaginate un videogioco in cui possano partecipare contemporaneamente centinaia di migliaia di giocatori collegati in rete, ognuno con il proprio personaggio (avatar), con un proprio conto corrente e varie proprietà mobili e immobili. I MMORPG vengono anche definiti "mondi persistenti" perchè non chiedono ai giocatori di raggiungere determinati obbiettivi e non esistono sessioni di gioco limitate nel tempo. Il mondo persistente è uno spazio di oggetti e relazioni sociali continuamente ridefiniti dalla febbrile attività dei suoi abitanti.
Secondo una ricerca effettuata nel gennaio 2005 gli utenti “regolari” di MMORPG (o MMOG, come vengono sempre più spesso definiti) sono oltre 5 milioni nel mondo. A questi si dovrebbero aggiungere gli oltre 4 milioni di giocatori dei due capitoli di Lineage, un gioco che in Asia ha avuto un successo formidabile. Attualmente il tasso di crescita delle sottoscrizioni è addirittura superiore alla curva esponenziale .
Nella cinquantina di chilometri quadrati di terreno vir-tuale di Second life, vivono oltre 32 mila persone che possono decidere di connettersi in qualsiasi momento e continuare la loro vita parallela. Quello in cui mi trovo ora non è molto grande confronto ad altri giochi online, ma sta riscuotendo un grande successo per lo sconfinato grado di libertà che fornisce.
Libertà di far cosa, se non ci sono draghi da sconfiggere e livelli da superare? E' quello che sto cercando di scoprire.


Spicco il volo, vedo il sole tramontare e il cielo tingersi di rosso. In Second Life il traffico non è un problema, esistono macchine, moto ed astronavi ma sono solo un capriccio per appassionati visto che tutti i personaggi possono volare e teletrasportarsi in ogni settore. Gli sopostamenti sono perciò rapidi e la gente si concentra in pochi luoghi ad ore precise. Esiste un ca-lendario pubblico degli eventi in programma che spaziano dai party alle sfilate di moda, dalle discussioni filosofiche ai workshop sulla progettazione delle case.
La gente si concentra soprattutto nei casinò, degli enormi edifici con insegne pacchiane ed interni possibilmente più kitsch dei corrispettivi del mondo reale. Nei casinò si tengono frequenti sessioni di Tringo, un’evoluzione digitale della tombola e ci si può cimentare con svariati tipi di slot machines. Fa una certa impressione vedere dei personaggi solitari rapiti dalle macchinette mangiasoldi. E’ una sorta di alienazione al quadrato: persone in carne ed ossa fissano il proprio avatar nel monitor mentre questo fissa il display di una slot machine virtuale.
Ad voler essere impietosi Second Life è soprattutto un grande villaggio turistico autogestito, una parodia serissima dell'industria del divertimento. In particolare sono attratto da un curioso paradosso: le attività più in voga questo mondo virtuale sono quelle strettamente legate alla corporeità.
Da qualche mese è di moda uno sport estremo che consiste nel tuffarsi da altezze spropositate con un paracadute. Sembra che il cittadino che lo ha inventato sia diventato ricco ven-dendo l'attrezzatura necessaria.
Ero in una festa in spiaggia assieme ad un gruppo di giovani che si stavano organizzando per questa attività. Hanno indossato tute e paracadute e sono saliti su una specie di navicella che li avrebbe portati oltre la stratosfera. Quando ho chiesto ad uno di loro che senso aveva un salto nel vuoto in un mondo in cui tutti potevano volare mi sono sentito semplicemente rispondere: «E' divertente»
Mi sono unito a loro e posso testimoniare che non è stato niente di entusiasmante. Ad un certo punto un ragazzo ha evitato di proposito di aprire il paracadute e si è schiantato al suolo. Gli amici si sono raccolti attorno al cadavere fingendo cordoglio o ridendo a crepapelle finché il burlone non si è alzato come se niente fosse. Inutile dire che in Second Life non si può morire.
Esistono molti locali dove si balla a lungo, notte e giorno. Sono persino capitato in mezzo ad un gruppo di animazione che si esibiva in perfette coreografie. La danza, come tutte le attività complesse, subisce una sorta di conversione cibernetica. Per far ballare il proprio personaggio è necessario possedere uno script, un piccolo programma che gestisce le animazioni. I migliori ballerini sono quelli in possesso degli script più originali. La scrittura o il possesso di un codice sostituisce ciò che nella vita offline è dato dall'esperienza.
Accade questo anche per il sesso. Ovviamente esistono club dove gli abitanti possono ac-coppiarsi liberamente.
Ho perso la mia verginità virtuale con un ragazzo dalla testa di volpe. Nemmeno lui aveva mai fatto cybersesso ma sapeva grossomodo come funzionava. Sono stato qualche minuto ad osservare il mio personaggio copulante, digitando urla e gemiti. Si tratta semplicemente di attivare il giusto oggetto virtuale e stare a guardare le animazioni che si ripetono all'infinito. E' la perfetta incarnazione del concetto di interpassività: siamo troppo occupati per divertirci ed istruiamo le macchine a farlo per noi .

A dire il vero, alcuni anni fa, il sesso virtuale è stato l'argomento di cui si è più parlato nelle riviste patinate, ma agli albori di internet ci si riferiva semplicemente ad un uso particolare delle chat. Un dialogo esclusivamente testuale offriva una possibilità di proiezione delle fantasie illimitato mentre il sesso nei MMORPG è sensorialmente molto più ricco e lascia meno spazio all'immaginazione. I personaggi tendono al fotorealismo, gli scenari sono ben definiti, l'interazione fra i corpi virtuali ha un riscontro oggettivo nelle immagini tridimensionali.
Eppure, la tendenza a surrogare completamente l'atto sessuale è molto forte. Ho letto che stanno sperimentando periferiche di bio-feedback da integrare in Second Life. I giocatori in-dossano sensori simili a quelli per il fitness, in grado di rilevare frequenza di respiro e battiti cardiaci che vengono automaticamente trasformati in output visivi o sonori nello spazio virtua-le. Il mio amante dalla testa di volpe potrebbe, ad esempio, programmare i movimenti della sua coda per rendere visibile il suo reale grado di eccitazione.
Il grande assente è ovviamente il senso più difficile da rendere coi mezzi tecnici: il tatto. Ma ci si sta lavorando. Qualcuno pensa di integrare i leggendari teledildonics, dei vibratori collegabili al computer e pilotabili da un pannello di controllo remoto. Con questo gadget ogni marito può soddisfare la moglie stando comodamente seduto nel proprio ufficio, fra lui e lei solo la macchina. E' un'opzione un po' fallocentrica ma evita il rischio di malattie veneree. Basta aver installato un buon antivirus.

«Ecco, non ti senti ridicola con quel coso?» chiede scherzosa Zoey Jade. Il mio personaggio, una graziosa ragazza dai capelli rossi, ha ora un pene poligonale innestato fra le gambe. L'organo sessuale maschile non è di serie negli avatar, è un oggetto aggiuntivo da indossare come un paio di occhiali. La simpatica ragazza che me lo ha regalato è la fondatrice del club anti - sesso virtuale di Second Life.
«Non sono una puritana» spiega «la trovo solo una cosa stupida. Per gente che nella prima vita è frustrata...»
Zoey non è l'unica persona a lamentarsi del cybersesso, le comunità che lo praticano sono molto diffuse e ci si imbatte spesso in locali a luci rosse che turbano i cittadini per bene. Ad ogni modo la questione è presa molto sul serio e decido di approfondire.
Mi teletrasporto all'interno di un cottage di montagna, il camino è acceso e un grosso albero di natale domina la stanza. La Padrona di casa è Shell Palmerstone, la leader di uno dei vari club BDSM di Second Life che ha accettato di incontrarmi. Appollaiata sul camino c'è la sua compagna Morrigan.
Alle prime battute mi chiede se faccia parte del giro anche nella vita reale. Shell è una colossale donna di colore con bustino attillato in pelle e calze autoreggenti. Sostiene di praticare il sesso estremo sia nella prima che nella seconda vita per lo stesso motivo:
«Per me è uno scambio di potere che può offrire un grande appagamento emotivo e psicologico»
Avvertendo la mia curiosità decide di darmi una dimostrazione pratica. Appena pronuncia delle parole d’ordine tipo “sdraiati” o “mettiti a quattro zampe” e la sua amica Morrigan obbedisce.
«Morrigan» commenta didascalica «indossa di sua spontanea volontà un collare che mi permette di pilotarla quando voglio»
E’ una brillante traduzione videoludica del gioco di ruolo fra dominatrice e serva: l’asimmetria di potere è la rinuncia al controllo del proprio personaggio.
«E questo lo trovate eccitante?» chiedo io stupefatto.
«Oh, molto…» rispondono in coro.
Ormai ho capito che mi vogliono convertire ed mi lascio plagiare volentieri. Iniziano ad impartirmi lezioni su come modificare l’aspetto del proprio personaggio e mi donano diversi vestiti. Pochi minuti dopo mi sono trasformata in un perfetto stereotipo fetish e i preliminari possono iniziare. Quando Shell inizia ad esibirsi in uno spogliarello, Mulligan mi chiede se nella vita reale sono veramente una femmina. Colpito in pieno. «Veramente sono maschio e pure eterosessuale» rispondo imbarazzato «ma ho sempre so-gnato essere una donna»
Mulligan scoppia a ridere mentre Shell interrompe lo spogliarello e si allontana indispettita:
«Ti ringrazio per la sincerità ma la cosa mi urta parecchio. Sono stata per tre mesi con un maschio che si spacciava per femmina e alla fine mi sono pure innamorata… che stronzo bugiardo!»
Devo aver toccato un tasto dolente perché poco dopo mi salutano frettolosamente e si tele-trasportano da qualche altra parte. Rimango solo a meditare davanti al fuoco del camino che brucia senza mai consumarsi.

Agli albori di internet, l’anonimato delle comunità online aveva entusiasmato molti commenta-tori. Nel contesto elettronico era normale che i navigatori stabilissero dei rapporti sociali senza il peso del proprio nome, della propria storia, del proprio corpo: chiunque poteva scam-biarsi per chiunque. Sociologi del postmoderno e seguaci della queer theory andarono in sollucchero: l'individuo poteva finalmente costruire o decostruire autonomamente svariate identità, poteva sperimentare diversi punti di vista. Nel cyberspazio il disadattato poteva di-ventare un eroe e rafforzare la sua autostima, il maschio poteva spacciarsi per femmina e provare sulla propria pelle tutti i pregiudizi e i piccoli soprusi che ogni giorno le donne si trovano a su-bire. La rivoluzione sembrava raggiungere il suo apice nei MUD (acronimo di Multi User Dungeon), gli antenati in forma testuale dei MMORPG in cui i giocatori si creavano molteplici avatar da usare e metter da parte come fossero abiti . Eppure col tempo e con la diffusione dei personal computer connessi in rete, i semplici MUD gestiti da amatori vennero sostituiti dai complessi MMORPG creati da grandi società dell'in-trattenimento elettronico. Queste ultime, essendo fornitrici di un servizio, dovevano garantire che il loro mondo virtuale non deludesse le aspettative dei clienti. I nuovi arrivati non dovevano essere bistrattati, i giocatori più smaliziati non dovevano abusare del loro potere. L'ambiente sociale doveva essere in grado di auto-regolarsi e l'anonimato diventava un ostacolo.
In Second Life come nella norma dei giochi online, il nickname (ovvero il soprannome nel mondo fittizio) non è modificabile e risulta sempre visibile a tutti gli altri giocatori. Posso cam-biare vestiti e aspetto, posso trasformarmi in un nano o in una sirena ma sarò comunque fa-cilmente riconoscibile grazie al nome che ho deciso quando ho sottoscritto l'abbonamento. E’ come vivere sempre con addosso un cartellino di identificazione impossibile da falsificare.
«Quello dell'anonimato è sempre stato un argomento molto discusso nei MMORPG» spiega un amministratore del gioco «credo che lo si sia abbandonato per una questione di ordine pubblico. Se puoi sempre cambiare la tua identità, sei molto più tentato a comportarti male o ad agire contro l’interesse della società»
Come accade nella vita reale, la difesa della propria reputazione, il ricatto sociale, il timore di essere escluso dalla comunità sono i maggiori deterrenti contro la devianza.
Peccato, però! Per l’ansia di ricreare i meccanismi sociali già ben collaudati si sono perse molte delle possibilità che solo una vita online avrebbe potuto offrirci.

Mi dirigo verso un'ampia area desertica che paradossalmente è molto frequentata. Si tratta di una sandbox, uno spazio dedicato alla sperimentazione libera delle funzioni di costruzione. Un figuro simile a Marylin Manson fluttua sopra di me. Con pochi magici gesti sta dando forma ad un castello dalle mura color ebano.
«Sono prefabbricati» mi spiega spostando telecineticamente un'enorme torre. Non so perchè ma la mia mente ritorna ai tempi delle LEGO. Second Life è solo un territorio vuoto. Tutto ciò che si vede è stato costruito dagli utenti combinando tra loro poligoni primitivi come cubi o cilindri e definendo i comportamenti con degli script, dei piccoli frammenti di programmi. Gli strumenti di editing sono integrati nell'interfaccia di gioco ma non sono semplicissimi da usare. Esistono organizzazioni di ingegneri specializzati in ogni tipo di oggetti, qualcuno loro guadagna molti lindendollari insegnando a costruire in apposite scuole virtuali.
Una figura solitaria attira la mia attenzione. Sembra un miraggio: una donna dall'abito bianco riccamente ornato che resta immobile nel mezzo del deserto. La saluto e mi risponde dopo un lungo silenzio quasi uscisse da una tranche:
«Scusa, stavo lavorando al mio avatar»
«Il tuo vestito è molto bello»
«E' tratto dal film Labirinth, quello con David Bowie»
Spesso mi capita di ironizzare sull'imperialismo della parola design. Vivendo a Milano, la de-cadente capitale della cratività italiana, non posso fare a meno di incontrare in continuazione fashion designers, graphic designers, interaction designers, sound designers, eccetera. In Second Life tutto questo non appare grottesco, il design, la progettazione di cose è veramente egemone. Chiunque è designer, in primo luogo del proprio personaggio. Fare un avatar at-traente è molto semplice, i modelli di base sono l'incarnazione in poligoni della bellezza occidentale. Più complesso è fare un avatar interessante, bizzarro, cool, che si distingua subito dagli altri. La competizione su questo campo è visibile e gli eccessi sono all'ordine del giorno. Si incontrano spesso i furries: una sottocultura di avatar zoomorfi con elaborate code e una gestualità animalesca. Come ogni minoranza che si rispetti hanno dei loro luoghi di ritrovo e si lamentano di essere spesso discriminati. Esiste addirittura una fazione xenofoba schierata contro di loro.
Nel mezzo della sandbox incontro un furrie ingegnere che confabula con un personaggio vestito da pilota di guerre stellari. Stanno lavorando sulla fusoliera di una navicella mentre il loro C1P8, copia perfetta del robot della saga di Lucas, fluttua nell'aria. Deve esser stato un er-rore di programmazione a farlo volare perché appena lo notano scoppiano a ridere.
Mi accorgo presto che quasi tutto l'immaginario manipolato da questa comunità di hobbisti è preso in prestito da narrazioni ben più potenti, generi e sottogeneri provenienti da cinema, televisione, fumetti e cartoni animati. Pochissimi riescono a creare qualcosa di originale. Certo, ho visto cose che voi umani non potete immaginare: grosse lumache arrampicarsi su palazzi, tunnel dalle texture animate psichedeliche ed altro ancora, ma si trattava di eccezioni perse in oceanico frullato di cultura pop.


Quando trovo parcheggiata una DeLorean tratta dalla trilogia di Ritorno al Futuro non resisto alla tentazione di provarla. Cerco di salire ma vengo immediatamente sbalzato via. Un mes-saggio mi informa che solo il legittimo proprietario può guidarla.
In Second Life, come in tutti gli altri MMORPG, la proprietà privata è una cosa seria. Ad ogni utente è automaticamente attribuito il possesso delle cose che costruisce. Egli può può decidere a quali condizioni consentire la copia e la modifica.
In genere qualsiasi oggetto può essere comprato, con un semplice click si versano dei lindendollari sul conto del costruttore e se ne riceve una copia. La proprietà privata è così intimamente codificata nella materia digitale per favorire forme di imprenditorialità e commercio.
Oltre ad un florido mercato interno di beni e servizi è molto diffusa la cultura del dono. In par-ticolare i nuovi arrivati vengono aiutati con un entusiasmo imbarazzante.
«Mi ricordo quanto è stata dura le prime volte» dice una donna di colore regalandomi una quantità di vestiti. E' proprietaria di un grande magazzino in un posto dal nome esotico e mi caldeggia di contattarla per qualsiasi motivo. Tutti gli oggetti finiscono in un inventario personale, non c'è alcun limite a quante cose si possono trasportare. Ho indossato un grazioso abito estivo ed in ogni momento posso estrarre un’inutile scultura di un panda. Possiedo anche una pistola che non imparerò mai ad utilizzare perché qui sono tutti pacifici.

Come suggerisce il nome, i primi MMORPG erano discendenti dei giochi di ruolo, o quantomeno delle loro versioni digitali. Gli universi di riferimento erano più che altro quelli della lette-ratura fantasy popolati da orchi, folletti e nani guerrieri. Le attività di esplorazione e combatti-mento facevano la parte del leone ma ci si accorse presto che, alla lunga, ammazzare draghi e acquisire nuovi poteri diventava noioso. Si creava poi un divario scoraggiante fra le abilità acquisite dai giocatori più esperti e quelle dei nuovi arrivati. I più anziani e competitivi erano dotati di poteri soverchianti che utilizzavano per uccidere e rapinare con regolarità i novizi.
In più occasioni le case prodruttrici ricorsero ad accorgimenti per limitare i comportamenti antisociali ed incentivare la cooperazione. Già a partire da Ultima Online, il primo MMORPG dotato di veste grafica, erano previste attività collaterali come pescare, estrarre materie prime o fabbricare oggetti. Col tempo assunsero sempre maggior importanza e nacquero originali forme di imprenditorialità. Fu abbastanza evidente che un tessuto produttivo e commerciale dava al gioco un'atmosfera più frizzante e sopratutto contribuiva a creare legami sociali dure-voli fra persone. Dal punto di vista delle case produttrici questo significava un maggior inve-stimento affettivo e di conseguenza una maggior fedeltà degli utenti.
Second Life è probabilmente il miglior esempio in questa direzione, tutti gli abitanti fanno parte di svariati gruppi di affinità, moltissimi hanno una propria di attività con cui si "guadagnano da vivere". E' una nuova generazione di imprenditori di sé stessi inseriti in un fitto network di relazioni mediate.
Si avverte un'atmosfera da nuova frontiera, c'è l'abbondanza, una sostanziale condizione di pari opportunità, la mancanza di limiti e di necessità primarie. Fluttuanti e svincolati dalla schiavitù del corpo, gli abitanti di Second Life possono dedicarsi ad una serie di attività creati-ve al confine tra il ludico e il produttivo. Pagando un abbonamento di pochi dollari al mese possono realizzare le promesse di indipendenza e realizzazione personale non mantenute dal lavoro autonomo terziarizzato.

Incontro Mush in una specie di campo da volleyball. Chiaccherando mi confida che è canadese e siccome non tutte le persone amano rivelare dettagli della propria vita offline cerco di approfondire:
«Che lavoro fai nella Prima Vita?»
«Facevo design digitale, ma ora sono in pensione»
«In pensione?» chiedo stupito.
«Già, non ho più lavorato dal grande crash delle dot com»
«Mi dispiace, sei rimasto senza lavoro?»
«Non lo cerco nemmeno. Vivo di investimenti e sussidi...»
Come molti altri abitanti Mush proviene da quella che qualcuno chiamerebbe "classe creativa" e non ha problemi a dichiarare la sua dipendenza dal gioco.


Dopo aver sorvolato per ore bruttissimi edifici ricoperti da texture di dubbio gusto mi ritrovo per caso in una deliziosa oasi. In quest’isola gli edifici sono rari ma splendidamente dettaglia-ti. Atterro in un giardino dalle sculture da fiaba e costeggio un ruscello, l’aria è popolata da lucciole ben pro-grammate. Entro in un palazzo verde smeraldo e mi imbatto in Treebee, una folletta dall’improbabile chioma viola che scopro essere autrice di tutto il lotto di terreno. Ini-ziamo a conversare sedute su due buffe poltrone di forma fallica. Mi racconta che nella vita reale è un’artista, in un palazzo poco distante vedrò alcune delle sue opere convertite in digitale. Ammette di essere sempre online, anche per lei la seconda vita è rapidamente diventata più importante della prima.
La cosa non mi stupisce affatto, riesco vagamente ad immaginare l’enorme quantità di tempo che deve aver richiesto la realizzazione dell’isola.
Cory Ondrejka è un pezzo grosso del management della Linden Labs, la società che nel 2003 ha lanciato Second Life. Nel corso dell’ultima GDC, una delle più importanti conferenze per sviluppatori di videogames, ha dichiarato che ogni giorno nel mondo virtuale vengono costruiti oltre 1300 oggetti per un totale di 7000 ore di attività creativa al giorno.
Le entrate della Linden Labs sono costituite dagli abbonamenti pagati mensilmente dagli utenti e dall’affitto di terreni. La società si occupa principalmente della gestione tecnica della piattaforma mentre tutto quello che succede all’interno è opera degli utenti. I dipendenti della Linden Lab che vengono amichevolmente chiamati Lindens, sono una sorta di aristocrazia illuminata che detiene il monopolio della superficie di Second Life. E’ lasciata una libertà pressoché completa su quello che si può creare e sulle attività commerciali che si possono avviare. Il credito e le proprietà degli utenti sono garantiti da un’inaggirabile sistema di identifica-zione degli oggetti .

Sto chiacchierando con una simpatica compagnia in una piscina all’aperto. Un vapore tele-comandato si leva dall’acqua. Ognuno ha una lattina di birra definita da una manciata di poligoni. Un tizio seduto accanto a me mette in scena una bizzarra gag metaludica: sostiene di non essere un avatar pilotato da un essere umano ma un’entità indipendente.
«Credi che non esistano altri mondi al di fuori di Second Life» chiedo io per scherzo.
«Assolutamente no, sono solo leggende» risponde lui divertito.
«Credi in Dio?» ribatto.
Un ragazzo all’altro lato della vasca risponde prontamente:
«Io non credo in Dio ma credo negli amministratori di sistema della Linden Labs»

La libertà promessa da Second Life esiste solo ad un livello puramente finzionale. Tecnica-mente il gioco risiede sui server centralizzati della Linden Labs, dei potenti computer che si occupano giorno e notte di smistare le informazioni che arrivano dai computer degli utenti. Ogni singolo bit è fisicamente memorizzato sulle macchine della società che detiene il potere assoluto su avatar, oggetti ed edifici. Quando un utente recede dal contratto perde tutto quello che possedeva nella seconda vita: la sua proprietà ma sopratutto le relazioni con altri giocatori fino a quel momento costruite .
C’è qualcosa di terribilmente distopico in un universo così ampio e coinvolgente e nel con-tempo così privatizzato e privatizzante. Non si tratta solo di un bel sogno a pagamento, non si tratta solo dell’ennesima incarnazione del panopticon: migliaia di persone investono una quantità sconcertante di tempo, creatività e affetti nella costruzione di un mondo che è sì condiviso ma anche inequivocabilmente proprietario. Ogni giorno e con un trend in rapida crescita, questo mondo virtuale incamera circa tre anni e mezzo di lavoro intellettuale degli utenti che concorrono a renderlo più ampio, vitale ed attraente.
Second Life, ancor più della trilogia di fantascienza di Matrix, è metafora della pervasività dello sfruttamento nell’epoca del capitalismo cognitivo. Ogni atto all’interno di un MMORPG ha a che fare con la manipolazione di simboli, un’agire comunicativo che produce valore. Ogni parola digitata, ogni legame affettivo stabilito, ogni poligono posizionato aumenta il valore com-plessivo del mondo. Un valore che è quasi interamente assorbito da un’entità altra dal mondo. Un modello in scala ridotta dell’economia postfordista in cui il Capitale è una piccola società Californiana.

Mi chiedo se questi mondi abbiano almeno la potenzialità di far comprendere meglio l’attuale paradigma economico. In Second Life ritrovo con una limpidezza sconcertante tutte le carat-teristiche, tutti i conflitti e le contraddizioni della società dell’informazione. La tensione fra proprietà intellettuale e filosofia open, la figura del prosumer, il produttore/consumatore, la cosiddetta “messa al lavoro” della comunicazione e degli affetti.
Certo essere consapevoli dell’esistenza di certe dinamiche non è di per sé sufficiente a risvegliare una coscienza critica diffusa. Non basta capire che qualcosa nel modo di produrre è cambiato per rivendicare - ad esempio - diverse forme di ridistribuzione della ricchezza. Il mio timore è che la naturalizzazione delle dinamiche del tardo capitalismo nel mondo virtuale possa favorire un’accettazione supina delle nuove forme di sfruttamento nel mondo reale.

Verso la fine del marzo 2005 il mondo online irruppe violentemente in quello reale. A Pechino, un uomo di 41 anni uccise un rivale di un MMORPG per il furto di una spada virtuale . L’assassino ha sostenuto di aver prestato alla vittima una spada che questi ha poi rivenduto ad un terzo giocatore per una somma di soldi reali equivalente a 700 euro. La polizia chiamata ad intervenire sulla controversia non ha potuto considerare la spada virtuale come proprietà privata ed il giocatore defraudato ha pensato di farsi giustizia da sè. Con un coltello per nulla virtuale. L’assassino è attualmente in prigione, condannato alla pena capitale. Un totale di due morti per poche righe di informazioni contenute in un server.
La notizia della “follia cinese” rimbalzò sulle testate di tutto il mondo, era necessario un fatto di sangue perché i grandi media si accorgessero dell’emergere di un nuovo tipo di proprietà.
Tuttavia è difficile pensare che un abitante di Second Life possa subire un offesa tale da ricorrere ad un regolamento di conti offline. Il fatto è che in questo momento mi trovo probabilmen-te nel migliore dei mondi virtuali possibili. O meglio, sono in uno di quei MMORPG in cui le re-lazioni e l’espressione di creatività individuale sono la principale attrattiva. La maggior parte degli altri giochi online sono molto più competitivi, assomigliano più ai tradizionali videogames che a delle evoluzioni di software per la comunicazione mediata come le chat.

I giochi come Ultima, Lineage o World of Warcraft si basano sull’accumulazione di soldi, di equipaggiamento, di skills (poteri, capacità). Il personaggio, più che una superficie su cui proiettare i propri desideri è un mezzo per raggiungere obbiettivi. Uno strumento costruito giorno dopo giorno, superando prove e combattimenti o investendo svariate ore di lavoro vir-tuale a coltivare, commerciare o estrarre materie prime. Per mantenere il gioco interessante i designer devono calibrare accuratamente le modalità di accumulazione di oggetti e di crescita del personaggio. In particolare devono creare artificial-mente una scarsità di risorse, rendere i beni virtuali alienabili per consentire il commercio ma non duplicabili dagli utenti . La spada virtuale del pechinese omicida era evidentemente un oggetto molto pregiato, forse un pezzo unico. Non importa se tecnicamente, fuori dalla finzione videoludica, consistesse in un pugno di dati facilmente duplicabili. Per il proprietario rap-presentava un investimento assolutamente concreto in termini di tempo, un investimento che il suo disonesto compagno di avventure era riuscito a capitalizzare in yuan sonanti.

Mi collego a Ebay, la famosa piattaforma per le aste online. Attraverso questo sito milioni di utenti in tutto il mondo comprano e vendono al miglior offerente ogni tipo di merce. Non c’è niente che non si possa trovare su Ebay: mobili, elettrodomestici, schede telefoniche, automobili, gadget elettronici e reliquie (perlopiù false) appartenenti a divi di Hollywood. Qualcuno ha addirittura messo all’asta il nome del figlia non ancora nata nella speranza di una mega sponsorizzazione anagrafica. Non c’è quindi da sorprendersi se esistono dei canali dedicati al commercio di beni virtuali.
Scopro che i castelli del gioco fantasy Ultima si aggirano attorno ai 500 dollari mentre un rarissimo barboncino rosa per the Sims Online può costarne 100. Per lo stesso gioco si trovano anche anche interi avatar. In particolare mi colpisce un personaggio in vendita che si è gua-dagnato una buona reputazione di commerciante all’interno del gioco. Una reputazione che costituisce un vero e proprio valore aggiunto, come il valore di avviamento del negozio.
Ma soprattutto su Ebay si vendono soldi. Soldi virtuali in cambio di soldi veri, una cosa che potrebbe lasciare perplessi molti profani.

Si può considerare il tempo di gioco l’unità di misura universale per tutti i beni virtuali. Per estrarre oro virtuale, per acquisire delle abilità da sfruttare nei combattimanti e per andare a caccia di tesori occorre soprattutto tempo. Tuttavia, molte delle attività più redditizie sono noiose quanto il lavoro reale. Ci sono giocatori che non hanno tempo o voglia di passare delle nottate a guardare il proprio avatar lavorare in minera e preferiscono comprare denaro virtua-le già guadagnato da altri giocatori.
La richiesta di contante virtuale è talmente elevata che sono nate società che si occupano esclusivamente del cosiddetto mercato secondario dell’oro. Come tutte le aziende globalizzate, hanno le direzioni commerciali negli Stati Uniti o in altri paesi del “primo mondo” e affidano le commissioni a società esterne localizzate nei paesi dove i salari sono più bassi come la Cina o il Messico. Gli “sweatshop” (che potremmo tradurre con “sfruttatoi”) dove si estrae oro virtuale sono tutt’altro che virtuali e nemmeno troppo difficili da avviare. Basta mettere decine di computer in un capannone e pagare operai non specializzati che li controllino.
Ogni computer è collegato al gioco multiplayer con un avatar che esegue delle macro, ovvero delle operazioni automatiche come camminare e uccidere chiunque incontra oppure estrarre oro dalla miniera. Il compito degli operai è principalmente quello di dissimulare l’automatismo per non essere scoperti dagli amministratori dei giochi ed evitare che i personaggi automatici vengano uccisi da altri giocatori. Un operaio in questi centri di estrazione di oro virtuale in cina può lavorare 12 ore al giorno e far guadagnare oltre 60.000 dollari al mese ai suoi datori di la-voro. Tutto per uno stipendio mensile di appena 150 dollari.
La speculazione avviene tutta sull’enorme divario fra il valore del tempo dei giocatori più ricchi e quello dei lavoratori più poveri. I compratori di oro virtuale possono essere collegiali del “primo mondo” troppo pigri per lavorare virtualmente o manager con poco tempo a disposizione. Esattamente come l’impiegato della middle class assume la lavoratrice immigrata per le faccende domestiche, i giocatori benestanti comprano tempo di lavoro/gioco a basso costo, cristallizzato in oro o merci virtuali.
E’ buffo come tutto questo mercato sia sostanzialmente creato a tavolino per venire incontro alla domanda degli utenti. Anziché sperimentare un’utopia a basso costo, un regno dell’abbondanza come quello di Second Life, molti giocatori trovano più divertente vivere un mondo parallelo afflitto dalle stesse miserie del pianeta Terra.
In un ambiente digitale fatto di informazioni perfettamente duplicabili, vengono posti dei limiti arbitrari per ricreare dinamiche simili a quelle del mondo reale: per vivere occorre denaro, per aver denaro occorre lavorare, lavorare costa tempo e “fatica”. Come inevitabile conseguenza, le disparità economiche del mondo reale si ripropongono immutate in quello virtuale e vengono sfruttate da abili speculatori.

Sono di nuovo nella mia seconda vita. Atterro in una vallata dove sorge un cottage in legno splendidamente rifinito. L’interno è arredato con una raffinatezza che raramente si incontra in questo caotico mondo. Un tavolo giapponese è imbandito con del sushi, sul pavimento ci sono tappeti con texture dettagliate. Ovunque accessori modellati con una cura maniacale. Sul divano del soggiorno c’è una coppia di colore che sembra uscita da un videoclip di MTV. Gioielli ostentati, vestiti che fasciano dei corpi perfetti.
I due sono sposati in Second Life ma non si sono mai visti e né intendono incontrarsi nella prima vita. Mi congratulo con loro per la sistemazione e mi rispondono che quella in cui mi trovo è solo una piccola residenza estiva.
«Dovresti vedere la nostra prima casa, è molto più bella e grande»

In Second Life la proprietà virtuale non è accumulata per scopi specifici. La spada della discordia appartenente al folle pechinese aveva un particolare valore d’uso all’interno del gioco. Poteva servire per uccidere draghi o essere usata come merce di scambio. Aveva delle carat-teristiche quantificate numericamente, delle proprietà oggettive che ne determinavano il valore economico in maniera abbastanza univoca. Ogni giocatore con una certa esperienza sa qual è il prezzo di mercato di un’ascia bipenne con determinate caratteristiche. Un vassoio di sushi modellato all’interno di Second Life non ha nessun valore d’uso perché il gioco non prevede obbiettivi da raggiungere. Il suo costo in lindendollari viene stabilito dal co-struttore in maniera arbitraria dal momento che non ci sono rigide categorie merceologiche. Nella maggior parte dei casi, gli autori degli oggetti virtuali non consentono la copia gratuita delle loro creazioni e talvolta ne vietano addirittura la vendita.
Se la proprietà privata nei giochi competitivi ha una giustificazione funzionalista, in Second Life ha un valore diverso, conforme al maggior peso che in questo gioco assumono l’apparenza, il prestigio e la comunicazione.
Gli oggetti, i vestiti, le proprietà immobili e l’aspetto dello stesso avatar concorrono a definire l’identità virtuale del giocatore. Un’identità costruita con grande dispendio di energie. Non è per nulla facile creare un avatar che si distingua in mezzo ad altri ventimila. Vendere o regalare il proprio vestito equivale a cedere un pezzo della propria identità .

E’ fin troppo facile dire che nello spazio senza corpi di Second Life l’essere non è distinguibile dall’apparire e dal possedere. Ma in fondo non è che una radicalizzazione di quello che già succede nella prima vita. L’economia del brand, in particolare nel settore dell’abbigliamento, consiste nell’attribuire alle merci un valore aggiunto del tutto simile a quello dei beni virtuali. Non compro un prodotto di marca solo per il suo valore d’uso ma anche e soprattutto per il suo valore comunicativo. Un valore che si potrebbe addirittura definire “magico”. Indossare un paio di scarpe Nike significa condividere uno stile di vita basato sul dinamismo, sull’istintività vincente dello sportivo (Just do it!) che da anni viene associato allo “Swoosh” attraverso co-lossali campagne pubblicitarie e sponsorizzazioni. Le merci brandizzate hanno quindi a che fare con la costruzione dell’identità nel proprio contesto sociale: un’auto di lusso o una maglietta di una marca “alternativa” comunicano l’appartenenza a determinate comunità o ceti. Non ci si deve quindi stupire se si verifica lo stesso fenomeno quando una parte della vita sociale si sposta all’interno di mondi virtuali .

I beni di Second Life, immateriali e liberati da qualsiasi residuo di valore d’uso, sono l’utopia avverata della merce fatta di pura comunicazione a cui (inconsciamente) tendono i grandi marchi. Quanto tempo passerà prima che Levi’s o Gap si lancino alla conquista di questo ba-cino di mercato?
Ho l’impressione che questo non avverrà facilmente: è possibile che i colossi dell’industria avvertano l’esistenza di un inevitabile antagonismo tra beni materiali e beni virtuali.
La coppia che ho appena salutato è ora intenta ad apportare modifiche impercettibili ad una parete divisoria del lussuoso cottage. Plasmano i poligoni di un caminetto di marmo, cre-ano un enorme televisore al plasma, utilizzano il mondo online come valvola di sfogo per i loro desideri frustrati di consumo. L’aspetto interessante è che l’installazione di una piscina olimpionica nel proprio lotto di terreno avviene con un dispendio di tempo, energia e soprattutto soldi, infinitamente inferiore alla sua corrispettiva nel mondo offline.
Se il desiderio di possesso della maggior parte dei beni è slegato da necessità materiali ed ha a che fare col bisogno di comunicare e marcare la propria identità, non si potrebbe supporre che questa necessità sia adeguatamente soddisfatta dalla proprietà e il consumo di surrogati virtuali delle stesse merci? Anziché inseguire il sogno difficilmente raggiungibile di una casa hollywoodiana, un impiegato medio potrebbe accontentarsi di una villa virtuale in Second Life. Potrebbe comunque fruirla in ogni suo aspetto, vantarsene coi vicini, apportargli continue mi-gliorie, organizzarci delle feste. Tutto senza dover firmare montagne di cambiali.

Nel futuro raccontato da Philip Dick ne “Le tre stimmate di Palmer Eldrich” la razza umana si spinge a colonizzare gli altri pianeti del sistema solare. Rintanati in avamposti sotto la superficie di pianeti ostili, i coloni hanno come unico diversivo la rievocazione della vita sulla terra at-traverso i plastici della bambola Perky Pat. I plastici sono riproduzioni in miniatura di lussuose ville e vengono maniacalmente arredati con mobili ed accessori comprati da una grande mul-tinazionale. Assumendo una particolare droga, i coloni possono proiettarsi nel plastico, incarnarsi nei corpi perfetti della bambola Perky Pat o del suo fidanzato e trascorrere alcune ore di una vita a loro negata. In una sorta di allucinazione collettiva le coppie di umani passeggiano sulle spiagge californiane, guidano bolidi fiammanti e si godono le loro residenze per la breve durata dell’effetto della droga.
Nel frattempo l’atmosfera della Terra si surriscalda a ritmi vertiginosi. La maggior parte dei terrestri vive rinchiusa in grattacieli refrigerati mentre solo i più ricchi possono permettersi soggiorni in un’Antartide dal clima mite.
Intuendo che la vita sulla Terra si fa di giorno in giorno sempre più insostenibile, un brillante imprenditore si prepara a commercializzare una nuova droga che consente allucinazioni più lunghe senza l’ausilio dei plastici. Chi la assume ha la possibilità di creare mondi di fantasia persistenti nel tempo, ambienti che possono essere fruiti da altre persone sotto l’effetto della stessa sostanza.
Pur essendo scritto nel 1964, quando realtà virtuale e reti telematiche non erano quasi imma-ginabili, Dick sembra descrivere con precisione MMORPG come Second Life o the Sims Online. Soprattutto ha l’incredibile acume di immaginarli come palliativi per soddisfare il desiderio di un tenore di vita non più consentito .
Forse la migrazione verso un consumo sempre più virtuale può essere un cambio di paradigma necessario per la sostenibilità ambientale. Si può facilmente dimostrare come l’attuale stile di vita dei paesi più industrializzati non possa essere adottato da quelli in via di sviluppo senza provocare il collasso ecologico. Di questi tempi la domanda più di moda è: cosa suc-cederebbe se ogni famiglia cinese possedesse un’automobile a benzina?
E se invece di preoccuparci per il tenore di vita degli asiatici ci chiedessimo: cosa succede-rebbe se ogni famiglia possedesse svariate auto virtuali con cui soddisfare le proprie fantasie individualiste ed usasse mezzi di trasporto pubblico per gli spostamenti nel mondo offline? Abbandonando queste bizzarre prospettive fantaecologiche, mi chiedo se le merci virtuali possano almeno demistificare la società dei consumi portandola alle estreme conseguenze. La palese virtualità di un paio di scarpe da ginnastica poligonali potrà servirci a comprendere la virtualità assurdamente dispendiosa di un paio di “vere” scarpe Nike?

Sto passeggiando all’interno di una grossolana riproduzione di un canale di Venezia. In Second Life i parchi a tema sono tutt’altro che rari, da qualche altra parte una comunità di giocatori francesi ha ricreato alla perfezione il quartiere di Mont Martre. Costeggiando un’atroce imitazione del ponte di Rialto mi auguro di tutto cuore che non sia opera di un italiano. Sono l’unica persona in un raggio di diverse miglia. Al di fuori degli affollati luoghi di aggregazione, non si può certo dire che la superficie di Second Life ribolla di vita. E’ un inevitabile aspetto del vivere senza i vincoli terreni: le case non servono come riparo dalle intenperie e sono quasi sempre disabitate, i negozi vendono solo oggetti decorativi e funzionano automaticamente. Siccome tutti possono volare e teletraspor-tarsi, le strade sono deserte.
Ho sentito dire che alcuni abitanti col pallino dell'urbanistica si erano organizzati per chiedere l'abolizione della possibilità di volare.
Sostenevano che il volo individualizzato svalutava il potenziale di socialità dei marciapiedi e avevano messo in moto una campagna finti segnali stradali che incitavano ironicamente a stare coi piedi per terra.
Una battaglia persa in partenza ma che metteva in luce il problema fondamentale delle città virtuali: la maggior parte dello spazio non è vissuto. Sembra sempre di trovarsi in mezzo un’esposizione di sculture o un set cinematografico abbandonato. Non essendoci flussi di corpi e merci, non si creano nemmeno dei punti con maggior “peso” geografico. I conglomerati sono esplosi, gli edifici accatastati in maniera disordinata. Chiaramente non c’è alcun bisogno di piani regolatori.

«Poco lontano da dove siamo ora, c’è una città che imita perfettamente quella del film Blade Runner. Il problema è che non è una vera città ma qualcosa di più simile ad un’installazione artistica»
Sto parlando con Gwyneth Llewelyn, una delle cittadine più attive di Second Life. Assieme ad un piccolo gruppo di persone porta avanti un’ambizioso progetto di città virtuale chiamato Neualtembourg .
«In Second Life è abbastanza facile costruire spazi che altri possano visitare. Ma è un discorso completamente diverso creare degli spazi con un valore sociale. Posti in cui si possano organizzare eventi, incontrare persone, discutere…»
Secondo Gwyneth la principale sfida di Neualtembourg è proprio quella di creare una comunità che duri nel tempo e che non si regga unicamente sulle energie del piccolo gruppo fondatore.

Eugene, un altro membro del collettivo mi invita a fare un giro turistico della città. Ha fatto comparire un grosso dirigibile ed ha indossato una bizzarra divisa da aviatore. I motori si ac-cendono e ci dirigiamo lentamente verso una cinta di mura medioevali.
«Neualtembourg è costruita sul modello di un antico villaggio bavarese» commenta Eugene «Quell’edificio vicino alla torre è il municipio. Là si riuniscono vari gruppi di discussione… questa è la piazza principale, l’anno scorso qui si è tenuto un Oktoberfest molto partecipato… più in la c’è la chiesa. Per il momento solo poche case sono abitate ma contiamo di popolarla presto. Adesso stiamo costruendo Altembourg, la parte vecchia della città, che in realtà sarà più giovane di tutto il resto»
Neualtembourg è probabilmente lo spazio meglio progettato di tutta Second Life, le casette dai tetti a punta sono tutte diverse tra loro e la loro disposizione irregolare crea dei tortuosi vicoli lastricati in pietra. L’interno della chiesa è impressionante, con un grande organo, l’altare e tutto quanto ci si aspetterebbe di trovare in una cattedrale gotica. E’ anche l’unico posto dove si usano i nomi delle vie.

Eppure mi sento un po’ a disagio. Proprio perché esplicita chiaramente il suo modello di riferimento, Neualtembourg appare anche incredibilmente artificiale, più inautentica - per quanto possa sembrare assurdo parlare di autenticità in un mondo di simulacri - di tutto quello che ho visto finora. Cerco di spiegarlo ad Ulrika Zugzwang, fondatrice del partito socialdemocratico di Second Life ed autrice del progetto originale di Neualtembourg.
«E’ molto bella, ma mi ricorda troppo Disneyland o Las Vegas. Le città sono il risultato di continue stratificazioni storiche, emergono da un’infinità di agenti sociali. Invece qui è tutto piani-ficato dall’alto e costruito semplicemente ricalcando un originale.»
Ulrika è californiana e fatico a tenere a bada il mio progiudizio culturale europeo: «Insomma, mi da l’impressione di una cosa molto americana» Ulrika scoppia a ridere.
«Anche una coppia di tedeschi mi ha detto che è un’americanata! Per quanto riguarda la stratificazione storica, prova a tornare qui fra mille anni e vedrai che qualcosa sarà cambiato…»
Mi spiega che il nome Neualtembourg significa letteralmente “Nuova città vecchia” ed è un’opera dichiaratamente postmoderna. Tutto iniziò quando la Linden Labs lanciò un concorso per la costruzione di isole a tema. Vo-levano qualcosa di adeguato ai territori “innevati” che stavano sperimentando in quel momento. Ulrika pensò che in nell’universo eccessivo, surreale e cartooneggiante di Second Life sarebbe spiccato un progetto stilisticamente più sobrio e così creò la prima Neualtembourg. Finito il concorso, avrebbe dovuto liberare il terreno ma a molti cittadini il borgo bavarese piacque tanto che decisero di acquistare il lotto e usarlo come base per una comunità vera e pro-pria. La necessità di dividere le ingenti spese - in soldi non virtuali - per l’affitto del terreno ha determinato la nascita di una proprietà comune. Il desiderio di gestire la sua urbanizzazione con coerenza stilistica ha inevitabilmente posto il problema di mettere in moto delle pratiche di decisione collettiva.

«Sarebbe la totale anarchia se chiunque potesse aprire un immenso bordello a cielo aperto di fianco a casa tua» esclama Satchmo Prototype senza nessuna ironia. Satchmo si occupa della programmazione delle parti più complesse di Neualtembourg ed è una creatura dalla pelle verde con cappello conico da contadino orientale. Si definisce un socialista e non è certo per perbenismo che si scaglia contro il sesso virtuale. Il suo auspicio è che nei mondi virtuali si possano sperimentare delle forme di autogoverno che regolino la convivenza nello stesso territorio. Quello del bordello è solo un esempio di come la totale libertà di un individuo possa limitare quella di un altro. Eppure, ora che ci penso, anche Eugene il pilota del dirigibile, mi aveva fatto lo stesso esempio. Probabilmente perché fu proprio un fatto simile a scatenare uno dei primi dibattiti sulla democrazia nei mondi Online.
Nell’autunno 2004 un cittadina di Second Life scoprì che il suo dirimpettaio aveva posizionato sul terreno di sua proprietà un’immensa immagine che lo ritraeva nudo . Dopo aver chiesto invano al vicino di rimuoverlo, decise di rivolgersi agli amministratori del gioco.
Con la crescita degli abitanti sono cresciute esponenzialmente anche le dispute fra giocatori. La Linden Lab, temendo che la situazione sarebbe presto diventata ingestibile ha proposto ai giocatori la creazione di un sistema democratico con leggi emesse dai rappresentanti dei cittadini. In quel modo i creatori del gioco speravano di scaricare l’onere della risoluzione delle dispute direttamente sulle istituizioni guidate dai giocatori.
A quel punto molti utenti pensarono che la creazione di uno stato virtuale avrebbe compro-messo quella libertà che costituisce la principale attrattiva del gioco e si organizzarono in un gruppo anarchico interno al gioco.
«Ci siamo semplicemente opposti ad un governo guidato dai giocatori, preferendo mantenere lo status quo, cioè la governance liberale della Linden» spiega Jai Nomad, la ragazza con una cresta rossa e abbigliamento da punk che ha fondato la fazione anarchica. A pochi giorni dalla sua creazione, il gruppo raggiunse ragguardevole la quota di ottocento iscritti che si aggiravano per il territorio virtuale cercando di informare e convincere i concittadini. Tanto bastò per far desistere la Linden Labs.
«Si è stabilito che le uniche forme di governo sarebbero state quelle delle comunità come Neualtembourg, in cui la gente sceglie liberamente di entrarci e sottostare a delle regole»
Sulla differenza fra un governo imposto dall’alto e la libera sperimentazione democratica insistono anche i cittadini di Neualtembourg. «La nostra speranza è di veder proliferare spontaneamente questo modello di autoorganizzazione» dice Satchmo mentre passiamo sotto la torre dell’orologio:
«Ci piacerebbe che Second Life fosse fatta da tante diverse comunità tematiche»

Il tema della città bavarese è quindi un semplice pretesto, uno scenario con una propria coerenza estetica stabilita a priori nel quale poter giocare alla democrazia. Lo si può capire dalle parole di Kendra Bancroft, una delle progettiste di Neualtembourg.
«Mi piace pensare alla politica come una particolare forma di ingegneria. Io sono costruttrice fino al midollo e quello che mi attira di più di questo esperimento è la possibilità di creare un motore funzionante. Penso che Neualtembourg non sia altro che un motore»
Kendra ha diversi progetti in cantiere, sta lanciando un villaggio vichingo ed una tribù.
«Diversi tipi di motori, insomma»
Mantenendo la metafora ingegneristica di Kendra bisogna dire che Neualtembourg non è an-cora a pieno regime. Ha un senato che si riunisce settimanalmente e ci sono state le elezioni di un sindaco ma non c’è ancora un surplus di soldi reali o virtuali che gli abitanti possano amministrare. I duecento dollari mensili per l’affitto del lotto sono divisi tra i pochi membri fondatori.
Un hobby abbastanza costoso. Tanto che mi chiedo quanto venga preso sul serio.
Gli altri membri del collettivo considerano Neualtembourg un’affascinante passatempo come Kendra o si augurano di poter creare dei ponti con la prima vita? E’ possibile influenzare la percezione delle comunità offline agendo online? E’ possibile sperimentare delle forme di democrazia virtuale praticabili anche nella cosiddetta realtà?
Quando chiedo all’anarchica Jay se pensa che una società senza Stato possa essere attuabile anche nella prima vita scoppia a ridere. «Non credo. Le cose funzionano diversamente là fuori»
Dello stesso parere è Gwyneth che nella prima vita non è impegnata politicamente.
«Ci sono delle differenze che non si possono trascurare. Per fare un esempio, che senso a-vrebbe lo stato sociale in Second Life? Qui non dobbiamo mangiare, non ci ammaliamo e non invecchiamo. Penso che tutto quello che facciamo, possa avere un senso solo all’interno di Second Life. Questo non esclude però che sia utile e istruttivo»
Ulrika invece sostiene di essere un’attivista anche nella vita di tutti i giorni ed ha le idee molto chiare in proposito.
«Per me Second Life è un posto perfetto per mettere in pratica la teoria politica. Ho imparato tanto qui, specialmente a relazionarmi meglio con le persone»

Il ceto politico virtuale è quindi ben consapevole che la politica in un gioco è in un certo senso politica per gioco, una sfera ben distinta da quella della prima vita. Eppure ci sono state di-verse occasioni in cui la politica offline si è riversata nei mondi virtuali.
In Second Life si tiene ogni anno un Gay Pride in concomitanza con quello reale, con carri al-legorici e bizzarri travestimenti. Per le ultime elezioni presidenziali americane si sono costituiti comitati elettorali virtuali per supportare i candidati in carne ed ossa di entrambi i partiti. Ma soprattutto è stato in occasione della mobilitazioni globali contro la seconda guerra in Iraq che molti attivisti si sono spesi per far sentire il dissenso anche nei giochi online.
In Second Life i pacifisti hanno organizzato un’esposizione di sculture mentre nei giochi meno liberali si sono dovuti escogitare sistemi più guerriglieri.
Nel 2002 un gruppo di artisti digitali, capitanati da Anne-Marie Schleiner, organizzò delle irruzioni vandalistiche all'interno di sparatutto multiplayer. I pacifisti si inserirono all'interno di affollate arene da combattimento ed applicarono graffiti ed iscrizioni sui muri che cercavano i-ronicamente di spostare l'attenzione sulla guerra reale.

Tutte queste sono pratiche che partono dal presupposto che i mondi online siano a tutti gli effetti spazi pubblici come le strade e le piazze. Luoghi insomma dove poter esercitare il diritto di parola. Sicuramente la socialità online sta acquisendo un peso sempre maggiore per moltissime persone, nei giochi come Second Life nascono in ogni momento amicizie, amori e di-scussioni. Ma se da una parte potremmo riconoscerli come l'ennesima incarnazione dell'agorà, dall'altra siamo tentati di iscriverli in una tendenza più generale alla privatizzazione degli spazi pubblici.
Nella vita reale la socialità si sposta da luoghi come strade, mercati di piazza o associazioni territoriali ai nonluoghi privati progettati per il consumo. Il principale problema consiste nel fatto che nei grandi supermercati delle periferie o nelle onnipresenti catene di ristorazione, i comportamenti ammessi sono quelli decisi dai proprietari dello stabile o del terreno. Difficilmente sarà permesso manifestare un segno di dissenso o fare qualsiasi cosa che possa turbare quell'atmosfera creata scientificamente per spingere al consumo. Entrando in uno spazio privato si firma implicitamente un contratto e ci si pone sotto l'autorità del proprietario esattamente come accade per i accordi che obbligatoriamente si sottoscrivono quando si crea un account di un mondo online.
Il problema democratico è sostanzialmente lo stesso ma il potere repressivo dei proprietari degli spazi virtuali è infinitamente superiore. Gli avatar sono semplici aggregazioni di dati memorizzati dentro server privati, sono corpi intrinsecamente disciplinati dal potere degli am-ministratori del sistema. Basta un click per togliere qualsiasi possibilità di espressione ad un utente di un MMORPG, cancellare tutti i suoi beni e interrompere i rapporti interpersonali che ha costruito all'interno del mondo. Ovviamente soluzioni repressive causano un certo danno di immagine ed una perdita economica alla compagnia proprietaria ma ciò non basta per ga-rantire i diritti dei cittadini virtuali.
Non sono rare le proteste "interne", rivolte dei giocatori contro particolari decisioni della società. Si tratta in genere di manifestazioni simboliche e atti di disobbedienza civile che in qualche caso hanno comportato espulsioni di giocatori dissidenti.

Tutto nasce nel momento in cui una persona sottoscrive l’abbonamento ad un MMORPG fir-mando un contratto virtuale. L'utente ha un potere contrattuale nullo perché non ha ancora avuto modo di organizzarsi con persone nella sua stessa condizione e deve necessariamente porsi sotto il potere assoluto del fornitore del servizio. Anche se nella sua seconda vita riuscirà ad aggregare forze, a farsi carico di istanze condivise dagli altri giocatori non potrà mai di-sobbedire al contratto e contestare una sua espulsione. E' difficile immaginare un ordinamento democratico che non sia calato dall'alto in un mondo online. Il conflitto che crea nuove forme, la tensione fra legalità e illegalità che sta alla base di qualsiasi società democratica non è ammessa nei MMORPG.
Perché si possa anche solo immaginare un ordinamento realmente democratico nei mondi virtuali occorre evitare l’attuale centralizzazione del servizio, l’asimmetria di potere tra proprietari delle macchine e utenti atomizzati e vincolati da un contratto.
La divisione di Ricerca e Design della France Telecom sta sviluppando Solipsis: una piattaforma per giochi online in grado di creare network altamente decentralizzati . I sistema su cui si basa è chiamato peer to peer (letteralmente “da persona a persona”) e si è diffuso come mezzo la condivisione dei files in rete dopo che i network centralizzati come Napster era-no stati incriminati per violazione di copyright. Mettendo in contatto i singoli utenti fra loro si toglie peso, responsabilità e potere ad un server centrale e si dà la possibilità di creare più centri di smistamento delle informazioni.
Un’altra possibilità è quella di creare un gioco che sia espressione di una comunità senza scopo di lucro e democratica fin dalla costituzione. AgoraXchange, un progetto promosso dall’artista Natalie Bookchin e dal politologo Jackie Stevens si muove proprio in questo sen-so . Secondo la definizione degli stessi promotori si tratta di un massive multiplayer game che intende “offrire una tangibile alternativa politica all’attuale ordine mondiale”. Partendo da una spietata critica al sistema degli stati nazione colpevole di creare guerre, disuguaglianze e devastazioni ecologiche, AgoraXchange si propone come spazio per una sperimentazione democratica basata sui principi di eguaglianza e di universalismo. L’intento è quello di creare un mondo online ex novo, aggregando sviluppatori, creativi e utenti sull’esempio delle comu-nità aperte come Wikipedia o di quelle che costituiscono il movimento del free software . A partire da rigidi presupposti egualitari, leggi ed istituzioni virtuali emergerebbero dal confronto fra liberi utenti.
Rimangono tuttavia valide le osservazioni degli abitanti di Neualtenbourg: se le necessità e i limiti di una vita virtuale sono radicalmente diverse da quelli fuori dallo schermo, come pos-siamo dimostrare l’efficacia di ordinamenti alternativi elaborati in un MMORPG?
Ma soprattutto come evitare che le disparità della vita reale non si riproducano in quella vir-tuale? Il popolo dei videogiocatori, per quanto si sia immensamente ampliato sia quantitati-vamente che qualitativamente, non è completamente trasversale a divisioni di classe, razza e cultura. Il cosiddetto digital divide, il divario di accesso agli strumenti infotelematici, discrimina nazioni e gruppi sociali all’interno degli stessi stati. Se la disparità di infrastrutture e possibilità economiche potrebbero essere in parte attenuate con l’adozione di software libero e modelli no profit, rimarrebbe insoluto il problema della disponibilità di tempo. La partecipazione ad un’attività politica in generale e di una seconda vita in particolare richiede un investimento di tempo che non tutti possono permettersi in egual misura.
Per quanto animati dai migliori intenti universalistici, progetti di questo tipo rischiano di includere solo una parte di middle class costituita in prevalenza di studenti, hobbysti e creativi abi-tuati ad uno stretto rapporto col mezzo informatico.
La politica nei mondi online rischia di diventare una valvola di sfogo per un’elite di lavoratori cognitivi frustrati dal progressivo allontamento dei centri di decisione che contraddistingue la cosiddetta globalizzazione. Un’utopia creata programmaticamente da zero sembra eludere la questione del cambiamento sociale a partire da una determinata situazione. Per questo motivo dubito che i mondi online potranno fornire strumenti e narrazioni per produrre - o anche solo immaginare - alternative praticabili qui ed ora.

Il mio periodo di prova di Second Life è terminato. In questi sette giorni ho parlato con innumerevoli persone, con alcune di queste posso anche dire di esser diventato amico. I rapporti interpersonali in un ambiente fortemente mediato come un MMORPG si costituiscono rapidamente ma risultano anche estremamente superficiali, specie se ci si addentra in veste di antropologo fai-da-te come nel mio caso. Eppure al momento di confermare l’annullamento del mio account ho una specie di vertigine: il mio alter-ego e tutto ciò che avevo accumulato scompariranno presto nel nulla, gli unici contesti in cui potevano avere un senso le amicizie che ho stretto rimarranno confinate in una dimensione a me non più accessibile.
Ho un’esitazione nel cliccare quel tasto di conferma, i mondi virtuali sono media altamente centripeti e meravigliosamente autoreferenziali. Creano dipendenza perché richiedono un investimento affettivo ma allo stesso tempo mantengono quella forte mediazione che dere-sponsabilizza e rende facile la completa rimozione di tutto ciò che riguarda le questioni legate al corporeità e al territorio. Una rimozione che può risultare estremamente comoda.
Negli Stati Uniti si è verificato un forte declino dell’associazionismo e della partecipazione alla vita pubblica che si potrebbero ritrovare in tutto l’occidente . Se mi chiedessero se le forme di socialità mediata come i MMORPG si debbano considerare come antidoti o cause di questa tendenza propenderei per la seconda ipotesi.
Tuttavia credo esista un approccio completamente diverso, centrifugo rispetto al mezzo, in cui lo strumento di comunicazione è finalizzato esclusivamente alla creazione di un collegamen-to, un ponte da attraversare per stabilire una relazione non mediata dalla macchina. Un approccio che accomuna i siti chiamati “social networks” come come Friendster per chi cerca un amico o un anima gemella, quelli per l’organizzazione di gruppi di affinità come MeetUp o quelli per lo scambio di posti letto temporanei o di passaggi in auto. Certo la componente ludica, l’intrigante gioco identitario e la creatività dei mondi online è soppiantata da ben più funzionali interfacce che incrociano domanda e offerta. Ma chissà, forse un giorno si troverà una sintesi.


Paolo Pedercini, settembre 2005.


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